Diario di una scuola italiana in tempo di COVID

Giornata prima, che prima non è

In qualche modo l’apertura è stata aperta, l’incomincio è incominciato, ed oggi si ritorna a scuola. Ci sarebbe da dire qualcosa sull’apertura, così come sull’incomincio, ma in quella scuola e in quella classe stanno per succedere così tante cose, stamattina, che sarà meglio mettere a fuoco il presente.

Il presente sul quale vogliamo mettere a fuoco consiste in una scuola elementare, piccola, in un villaggio piccolo, con classi piccole di bambini piccoli, con insegnanti che piccoli non sono ma che tali si sentono, di fronte a quei piccoli — minuscoli — nemici invisibili che galleggiano in aria e fanno ricreazione sui mobili, i virus, che però non si vedono ma dovrebbero esserci, potrebbero esserci, ci saranno sicuramente, o forse no, ma è meglio pensare che ci siano, o forse no.

È settembre inoltrato e fa più freddo del solito. È settembre inoltrato e sembra che faccia più freddo del solito. È settembre inoltrato e si teme che faccia più freddo del solito, perché se fa freddo son cavoli, son raffreddori, sono starnuti, sono paure — paure fottute.

A volte, nei corridoi della scuola, sembra di sentirli, gli starnuti — da lontano. Finché son lontani, gli starnuti non fanno paura, son soltanto un flebile segnale di allarme, che dicono di stare alla larga, che in quel momento – forse – molte particelle virali stanno scoprendo per la prima volta l’ebbrezza del volo. Dicono, si diceva, di stare alla larga, ma non è poi così facile, pensava Eduardo mentre percorreva il corridoio e si avviava nella sua classe, forse proprio il luogo di origine di quell’allarme appena sentito. Cammina e cerca di farsi coraggio, sta per tirare un respiro profondo ma si ferma appena in tempo, e ne fa uno leggero, lieve lieve, in fin dei conti insoddisfacente, attraverso l’inutile cotone della sua mascherina.

“Buongiorno bambini”, dice entrando con un fil di voce, tanto filo che nemmeno oltrepassa la barriera di tessuto.

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